Recensione: Nella tana di Gabrielle Filteau-Chiba


«La mia capanna. Quattro assi in mezzo al bosco. Un piccolo prisma rettangolare. Un vaso di Pandora. Non ho mai visto le cose con così tanta chiarezza. Dato un giudizio così netto sulla mia vita precedente. Santuario di neve, grazie. Devo fare i conti con tutte le mie chimere, ma ho ritrovato qualcosa che è così facile perdere... la speranza.»
Cosa può fare, pensare, sentire un essere umano in una foresta, in inverno, a quaranta gradi sotto zero? L'unica risposta logica è freddo, diremmo, ma forse è troppo semplice.

"Nella tana" di Gabrielle Filteau-Chiba [Lindau] è il diario di Anouk, una giovane donna che, in rivolta con i meccanismi del sistema di vita cittadino ripetitivo e stressante, abbandona Montréal per rifugiarsi in una capanna immersa nei boschi attraverso cui passa il fiume Kamouraska.
In dieci giorni di racconto, Anouk ci farà conoscere i suoi pensieri, le riflessioni di una donna senza figli e senza legami alle prese con le codificazioni sociali di un mondo che cerca dare un posto e un nome a ogni cosa.
«Incarnare l'angelo del focolare nel cuore di una foresta gelida rimane, per me, l'atto più femminista che io possa compiere, perché significa seguire il mio istinto femminile e tracciare sulla neve e l'inchiostro le tappe della mia emancipazione.» 
Mi sono lasciata coinvolgere dalle considerazioni di una femminista rurale che cerca di venire a patti con la mancanza di comodità della sua nuova vita boschiva: un bicchiere d'acqua da bere che, se manca la legna nella stufa, diventa ghiaccio, taglia di netto la possibilità di accedere a un bene prezioso come l'acqua, laddove noi diamo per scontato che il rubinetto - salvo alcune eccezioni - sarà sempre la nostra fonte primaria di rifornimento automatico.

Pian piano, da cittadina Anouk si trasforma in un essere umano attento alla natura che la circonda e a quella che brilla dentro di lei, in pensieri, speranze e desideri.

Oltre ai bisogni fisici primari, Anouk si trova a fronteggiare anche il desiderio di contatto umano, nelle notti gelide che paralizzano la mente in un buio che sa di immobilità eterna. Quasi come se uno spirito della foresta volesse esaudirla, un giorno un uomo bussa alla sua porta. È chiaro fin da subito che l'uomo non è chi dice di essere e che è lì per tutt'altro motivo rispetto a quello dichiarato. Anouk lo sa, lo sente, ma sa anche che non riesce a resistere alla pelle bruna di quell'uomo selvatico e indomabile.

In poco meno di cento pagine, Gabrielle Filteau-Chiba ci regala un diario semi-autobiografico - vive in una casa alimentata dall'energia solare sulle rive del Kamouraska - che costituisce una presa di coscienza di una donna moderna alla scoperta della bellezza della natura, in qualsiasi modo essa si manifesti.

Alla fine della lettura mi sono fermata a pensare alle scelte sentite e a quelle "imposte" dagli schemi sociali: lasciare un appartamento per rintanarsi - letteralmente! - tra i boschi sembra una decisione drastica, ma, a ben guardare, rappresenta quel vuoto che ogni tanto abbiamo tutti bisogno di sentire attorno per ridefinire i veri confini di noi stessi.
«È qui, in fondo alla mia solitudine e a questa striscia di terra deserta, che la mia vita ricomincia.»

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