Il mio distanziamento sociale ovvero la solitudine con e senza pandemia


«Non ho mai amato la solitudine.
Ma se stare in mezzo alle persone significa convivere con la falsità preferisco vivere per conto mio.»
Alda Merini

Ho avuto molto su cui riflettere negli ultimi tempi.
Fin dai primi giorni della pandemia, mi sono scoperta a ripensare alla mia vita fuori: le mie riflessioni, lo confesso, sono state innescate dalle continue lamentele che ho letto in giro sulla libertà limitata, sulle abitudine cancellate, sulla vita sociale azzerata.

C'è da dire - a discolpa della mia scarsa memoria anche per quanto riguarda le mie piccole e grandi tragedie personali - che tendo sempre a empatizzare con chi mi palesa un sentimento che lo affligge: così, se qualcuno si lamenta di non poter più andare al bar a fare colazione con il suo dolce preferito, di non potersi incontrare con le amiche per un giro per i negozi, di non poter più andare al cinema, a trovare i parenti, di non  poter vedere genitori se non attraverso uno schermo, io ci credo, partecipo veramente al dolore di chi è stato privato di tutto ciò.
Credetemi, mi rattrista sul serio sapere che c'è gente che si è sentita mancare la terra da sotto ai piedi perché per chissà quanto tempo non potrà andare al bar.
Quando parlavo di scarsa memoria per le cose che mi riguardano, mi riferivo soprattutto al fatto che, da quando mi sono trasferita in Svizzera, io ho dovuto rinunciare alle sfogliatelle al bar, agli amici, alle domeniche a casa dei miei, al cinema (a meno che non decida di vedere un film in una lingua diversa dalla mia), alle passeggiate in riva al mare, alla pizza nella mia pizzeria preferita, finanche al giro nella libreria che mi ha vista crescere.


E no, non c'era nessun divieto, solo che tutte queste cose, le cose che ero solita amare e fare, le  avevo lasciate a mille e cinquecento chilometri di distanza, certamente non raggiungibili ogni volta che scendevo di casa.
Senza nessuna imposizione, mi sono resa conto di praticare il distanziamento sociale da anni, ormai.
Non incontro persone per strada da abbracciare, né mi assembro con gente non appartenente al mio stretto nucleo familiare in case altrui, al bar o in altri locali.
Difficilmente mi avvicino più di due metri a uno sconosciuto e, l'ultima volta che uno sconosciuto ha superato questa distanza, era il commesso del supermercato che mi aiutava con la carta di credito bloccata nella macchinetta.

Per me erano finiti i tempi delle uscite di gruppo già prima che un virus minasse la socialità così come abbiamo sempre pensato che dovesse essere. Anche quando scendevo a Napoli, dei miei vecchi amici seguivo la vita sui social - dove non mi hanno bloccato - perché già non mi arrivavano più inviti a riunioni e compleanni, e allora l'unico virus che stavano evitando a ben guardare, forse, ero proprio io. 

Ho messaggi senza risposta dal 2015.
Chat di gruppo da cui sono uscita e in cui nessuno si è mai chiesto il perché.
Il mio contatto Facebook cancellato e bloccato senza che io sia mai stata molesta con qualcuno.

Ora, ditemi, a me il distanziamento sociale demonizzato dai media, descritto come il male supremo, l'ultimo baluardo della solitudine mortifera e sterile, ditemi, a me questo distanziamento sociale, esattamente, cosa cambia nella vita?
Dalla mia vita, quella vera, quella che amo, nessuno potrà mai distanziarmi.
In quella vita ci vivo insieme a mio marito e a mia figlia, con la mia famiglia, a distanza, ma che riesce a farmi sentire amata e parte dei loro giorni anche attraverso uno schermo, con quelle persone con cui si è andati da tempo oltre l'amicizia. E con i miei libri.
Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia.Jean-Paul Sartre

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