Recensione: Gli affamati di Mattia Insolia


«L’uno accanto all’altro, immersi nel pantano di vetri e sangue, pareva che guardassero le stelle.»

La fame è contagiosa. Se qualcuno mangia avidamente davanti ai vostri occhi, non importa che abbiate appena mangiato anche voi, la bocca vi diventerà secca, le fauci allappate, il cuore che accelera e una strana smania di fare qualsiasi cosa per avere quel cibo.

Paolo e Antonio Acquicella, i protagonisti di "Gli affamati" di Mattia Insolia [Ponte alle Grazie], sono stati lasciati a digiuno dalla vita, hanno fame, una fame che non ha fondo, e farebbero qualsiasi cosa per soddisfarla.

«Paolo Acquicella era avido di distruzione. Quando si svegliò, sudato, il fiato corto, la sua rabbia senza nome era già lì. Gli sedeva sul petto e pretendeva la sua attenzione.»

I due fratelli, di ventidue e diciannove anni, vivono da soli a Camporotondo, dopo che la madre se n'è andata e il padre è morto. Paolo lavora come muratore in cantiere e Antonio va ancora a scuola, ma è estate e i due fratelli si trovano soffocati dall'afa e da un bisogno senza volto che, come un mostro sotto al letto, striscia e si fa sentire nei momenti peggiori, quando potrebbero prendere due decisioni e loro si fanno sempre trascinare da quella sbagliata.

Hanno pochi amici con cui condividono canne e serate alcoliche: Carlo e Nicola seguono Paolo dappertutto, in qualsiasi impresa folle, ma lo fanno per noia, non per reale malessere; Italo è il migliore amico di Antonio, con lui può essere sincero fino in fondo e togliersi la maschera di figlio di papà tutto palestra e scopate in giro.

Mentre la città, Camporotondo, sembra un villaggio acquiescente che si sta lasciando andare, perché sa che tutti lo abbandoneranno, presto o tardi, e quelli che resteranno sono marci, anime in decomposizione senza speranza.

«Camporotondo contava diecimila anime, uno sputo di palazzine fatiscenti nel nulla meridionale su cui l’afa si abbatteva impietosa. Non c’era niente, a Camporotondo. E i suoi abitanti, quel niente, se lo facevano bastare con simulata indifferenza.»

Paolo e Antonio sono una famiglia: non lo avevano programmato, sicuramente non si meritavano di essere trattati così dalla vita, ma hanno imparato loro malgrado a contare l'uno sull'altro.
La loro relazione funziona, o meglio, ha funzionato fino a quella maledetta estate, troppo calda per non riaprire ferite suppurate dal silenzio e dalla mancanza d'amore. Il degrado in cui vivono contribuisce a scavare nella carne con una rabbia che ha radici profondissime.

In Antonio, soprattutto, la mancanza d'amore costituisce una crepa nella corazza di apparente equilibrio che ha cercato di costruirsi: l'abbandono della madre è un coltello che il ragazzo porta conficcato in mezzo al petto e non serve che il fratello cerchi di indurirlo ai colpi della vita.

Vorrebbero che tutto fosse andato diversamente, naturalmente, ma le cose non si possono cambiare e loro possono solo cercare di restare a galla. O lasciarsi andare alla fame violenta che li divora dalle viscere.

«Era stata egoista? Sì. Era stata stronza? Sì. Era una madre degenere? Sì. Sì, sì, sì. Sì e soltanto sì. Sì a tutto. Ma tornando indietro si sarebbe comportata in modo diverso? A quella domanda era incapace di rispondere.»

"Gli affamati" è il romanzo d'esordio di Mattia Insolia che, a venticinque anni, ci consegna un racconto di solitudine e disperazione e lo fa attraverso una scrittura realistica, crudele, dolorosa: ogni parola diventa un bisturi che taglia, scava, che non ha nessuna remora a mostrarci anche quello che non vorremmo né sapere né vedere.

Fin dalle prime pagine, "Gli affamati" mi ha presa in ostaggio: l'ho finito in due giorni perché non riuscivo a sopportare i crampi allo stomaco che mi causava l'orrore di guardare in faccia al non-amore, a quel vuoto che si spalanca come un abisso là dove invece dovrebbe esserci.

Paolo e Antonio non hanno potuto capire cosa significa il calore di un abbraccio, sono cresciuti con il vuoto di una stretta che non trova corrispondenza in altre braccia spalancate ad accogliere.
Questo romanzo fa male, ma è un'infelicità che somiglia molto a una malinconica tenerezza verso quello che sarebbe potuto essere e non è stato.

Leggete "Gli affamati" perché dovete conoscere la mancanza, il vuoto, il freddo, per poter apprezzare quello che avete, e la scrittura di Mattia Insolia vi esporrà tutto, non temete, senza vergogna, senza nessun tabù. Sta a voi, alla fine, sentirvi più affamati o, finalmente, sazi.

A chi è affamato
che il mondo l'ha lasciato senza niente.
Venite fuori tutti, vi prego, e
distruggete i falsi idoli,
razziate le grandi città,
respirate la nuova aria.
Infine, appagate i vostri desideri.
A chi è affamato,
che il mondo l'ha lasciato senza niente,
adesso io dico: saziatevi.

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