Recensione: Il giorno dell'ape di Paul Murray


«Soltanto la puntura dell'ape aveva rovinato la festa; lei indossava ancora il velo. D'altra parte, era davvero così grave? Suggeriva l'idea che un residuo di dolore indugiasse sotto la superficie; metteva a tacere chi avrebbe potuto trovare la festa sconveniente, troppo gioiosa.»

Può una storia essere talmente distante dal nostro essere da amarla incondizionatamente, da conficcarcisi dentro e non schiodarsi anche a mesi di distanza dalla sua lettura?
A me succede, talvolta, coi libri che mai avrei immaginato - mi è successo con Normal People, per dirne una - e che poi diventano quelli a cui ritorno col pensiero costantemente.
Mi è successo recentemente con "Il giorno dell'ape" di Paul Murray (Einaudi), romanzo familiare attesissimo nella sua traduzione italiana (di Tommaso Pincio), dopo l'enorme eco che aveva avuto appena pubblicato in lingua originale col titolo di "The Bee Sting".

La famiglia Barnes può considerarsi da invidiare: hanno i soldi, la posizione sociale e due figli maschi, di cui uno, Frank, è anche il rubacuori e la star della squadra di calcio locale. Quando Frank incontra Imelda, la cui bellezza è l'unico patrimonio che possieda, sono scintille: sono belli, sfrontati, pieni di belle speranze per il futuro e persino il patriarca, Maurice, dà la sua benedizione di fronte a quella fortuna.
Passano gli anni e noi ritroviamo Imelda sposata con Dickie, il figlio maggiore dei Barnes, quello che studiava a Dublino e che ora ha preso le redini della concessionaria del padre, mandandola in malora.
Hanno due figli, Cassie, che sta per partire per il college, e PJ, un dodicenne pieno di insicurezza, che soffre per la caduta in disgrazia sociale della sua famiglia.
Intanto, mentre tutto va a rotoli, Dickie è preso dall'ossessione di costruire un rifugio antiatomico nel bosco, aiutato da un personaggio strano e indecifrabile, immergendosi sempre di più nelle teorie survivaliste. 
Tutta la patina brillante che avvolgeva la famiglia Barnes come un sogno a occhi aperti, sembra essersi appannata, è svanita, come se non fosse mai esistita.

«Avrebbero potuto posarci anche il suo cuore e seppellirlo insieme a lui
Il cuore e i capelli in cui lui amava passare le mani gli occhi in cui lui si perdeva la bocca che baciava le orecchie piene delle sue parole i polmoni che respiravano il suo [...]
Seppellite tutto seppellite tutto cosa importava? Che se ne faceva senza di lui?»

Ogni capitolo ha la voce di un personaggio e in ognuno Murray riesce a farci ascoltare i pensieri con un tono e un registro diverso. In ogni capitolo c'è un segreto - o anche più di uno - che viene alla luce e una verità che ci colpisce dritta in faccia.
Personalmente, ho amato moltissimo il capitolo in cui è Imelda a parlare, senza punteggiatura, senza alcuna regola o pausa, come se non tirasse il fiato fino alla fine. Pur ricordandomi il monologo di Molly Bloom di joyciana fattura, la voce di questo personaggio ha una forza dirompente tutta sua, che non si può contenere in pregiudizi grammaticali né paragonare ad altro che a sé stessa.

Fin dalle prime pagine, mentre la guardiamo attraverso gli occhi degli altri, non riusciamo a immaginare Imelda più che algida e perfetta. Eppure, nel capitolo successivo, Murray ce la presenta come una ragazza insicura, sola, emarginata. Che ha imparato in fretta e a sue spese come sopravvivere.
Impara a sottrarsi allo sguardo degli uomini violenti.
Impara a sorridere a Maurice perché da Maurice dipende la sua storia d'amore.
Impara a cambiare discorso di fronte alle domande di Peggy (la madre di Dickie e Frank), ai suoi sguardi giudicanti.
Impara a non soccombere sotto i colpi di un dolore troppo grande da sopportare.
Impara ad abbassare la testa di fronte al destino.

Gli occhi di Imelda sono diventati i miei, durante la lettura, e anche quando il focus del capitolo cambia, ho tenuto ben presente questa figura che, talvolta dallo sfondo, fa emergere la sua visione della realtà.

«È come se qualcuno o qualcosa fosse determinato a farle capire che niente si è mai mosso da lì L'hotel Il passato L'hanno aspettata il tempo che serviva»

I focus sono diversi, di capitolo in capitolo, perché Murray dà a tutti i personaggi la possibilità di essere l'assoluto protagonista della propria vita e della storia che, per la grandezza di un capitolo, diventa tutto il romanzo.
Il focus è l'ego di ognuno, forte o debole che sia, confuso, ingenuo, ferito, ma assolutamente personale.

"Il giorno dell'ape" è un romanzo che, nel formato di una famiglia, contiene un universo intero di segreti, desideri, paure, colpe e speranze.

Non riesco a smettere di pensarci, come se volessi ancora leggerne, come se potessi ancora cambiare qualcosa nel destino dei personaggi.
Come se non fosse più facile ammettere che mi sono trovata per le mani un libro che ha cambiato il mio sentire per la lettura.

Leggetelo, rileggetelo, lasciatevi cambiare.


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