Recensione: Hôtel del Ritorno alla Natura di Georges Simenon


Cosa definisce un buon libro?
Me lo chiedo da anni e la mia indagine non si è mai arrestata.
Di certo una scrittura accattivante rende la lettura più piacevole. Se poi esiste anche una bella storia, il gioco sembra fatto. Sembra. Perché, in realtà, a parer mio c'è bisogno anche di un ingrediente segreto che si sente come se fosse un odore tra le pagine.
In "Hôtel del Ritorno alla Natura" di Georges Simenon [Adelphi] io ho sentito quell'odore.

Confesso di aver letto solo un altro libro dell'autore belga - "Tre camere a Manhattan" - ma è successo talmente tanto tempo fa che non saprei richiamare neppure un elemento della trama. Quindi è come se questo fosse il mio primo Simenon e credo che sia arrivato al momento giusto per scatenarmi una sufficiente curiosità da voler approfondire ancora la lettura della sua vastissima opera: non fosse altro che vivo a Losanna, città dove lo scrittore ha vissuto per circa una quarantina d'anni e dove poi è morto nel 1989.

La storia narrata nel libro ha un'ambientazione che mira a richiamare il Paradiso terrestre: su un'isola delle Galápagos che viene chiamata Floreana, vive una micro comunità di borghesi sfuggiti alla civiltà. Il primo ad arrivare è il professor Frantz Müller insieme a Rita Ehrlich, una sua ammiratrice con cui intrattiene una relazione completamente platonica. Poi ci sono gli Herrmann, madre, padre e figlio debole di nervi e tubercolotico: la famiglia si è trasferita nella natura sperando che questo porti giovamento alla salute del ragazzo. Periodicamente ricevono dei viveri dalla terra ferma e la vita sembra scorrere tranquilla e senza scossoni che non siano legati ai cambiamenti climatici stagionali. Una volta, però, dal battello dei rifornimenti scende anche una compagnia bizzarra composta dalla contessa von Kleber e dai suoi due amanti, Nic e Klaus. È subito chiaro che il nuovo gruppo sconvolgerà gli equilibri del nucleo originario, ma, allo stesso tempo, un senso di ineluttabilità rende impossibile reagire.
«Ci sono stanze con porte e finestre, e anche un'insegna, come in città: Hôtel del Ritorno alla Natura.»
Simenon, fin dalle prime pagine, ammanta le parole di una sorta di brivido di attesa, come se la scelta dei vocaboli fosse volta unicamente a creare una tensione parossistica verso qualcosa che sappiamo stia per accadere, ma non immaginiamo cosa possa essere.
Ogni gesto che i personaggi compiono è finalizzato a creare attesa, tensione, a fornire un ulteriore indizio per svelare il mistero che sentiamo aleggiare su tutta l'isola. Ci sono addirittura delle situazioni che hanno poco senso, ma, man mano che si procede nella lettura, ci si rende conto che sono quei non-sense a fornire una misura della follia che serpeggia tra le persone che vivono lì insieme, eppure senza alcuna vicinanza.
«Qualcosa era nell'aria, forse qualcosa di illogico come tutto quello che era successo prima, come la morte dell'asino, come tutto quello che emanava dalla contessa.»
La vicenda narrata nel libro ha un fondo di verità: richiama, infatti, un fatto di cronaca avvenuto più o meno nei primi anni '30, quando una piccola comunità di europei si era trasferita su Isla Floreana, nelle Gálapagos, per allontanarsi dalle regole della società civile e riavvicinarsi alla natura. L'epilogo ha chiaramente ispirato a Simenon il finale del romanzo e questo dà ancora più i brividi.

Ho divorato ogni frase, ogni capitolo, godendomi le scelte linguistiche, lasciandomi conquistare dalla scrittura di Simenon, cercando di decifrare il messaggio che vuole lanciare nel testo, qualora si possa parlare di messaggio. 
Leggendo "Hôtel del Ritorno alla Natura" ho capito che ci sono libri che si devono accettare così come sono, come opere di ingegno autoriale, come ricami del genio che conquistano per il loro esercizio sulla lingua e sulla scrittura. Ho pensato a questo libro e al suo finale per giorni e giorni e mi ha messo addosso la smania di leggere altri romanzi di Simenon, e chissà se poi non possa arrivare anche all'iconico Maigret.
«Tutti avevano preso la parola, e lui per primo, ma non c'era stata conversazione, come se ciascuno parlasse soltanto per sé. E quando si erano accomiatati era stata la stessa cosa: non si erano detti arrivederci, non si erano stretti la mano. Gli uni se ne andavano, gli altri restavano; nient'altro. Tutto questo dava un senso di vuoto, di inutilità.»

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