Recensione: La ragazza che levita di Barbara Comyns



Una ragazza nella Londra edoardiana, un padre burbero e misogino, una casa piena di animali strani, malati o soli: basterebbe già solo questo per parlare di romanzo a tinte fosche.
Se poi ci aggiungiamo che la ragazza, Alice, levita, il quadro di bizzarrie assume sfumature gotiche da circo degli orrori.

"La ragazza che levita" di Barbara Comyns [Safarà editore] è un romanzo che ha in sé la favola e l'incubo, in una perfetta mistura di bellezza e orrore che non permette di staccare gli occhi dalle pagine.

Scritto nel 1959 e pubblicato col titolo originale di "Vet's Daughter", il libro narra la storia di Alice Rowlands, una diciassettenne figlia di un veterinario e di una donna fragilissima e triste. Alice vive in casa coi genitori e con gli animali che il padre cura e vende nel suo ambulatorio. Alle normali attività di casa, Alice aggiunge anche qualche lavoro agli ordini del padre, come pulire gli animali o portarli a spasso. Solo qualche passeggiata con la sua amica Lucy, dal colorito verdognolo e che parla con lei usando le mani perché è muta, rompono la grigia routine di tristezza. 
Quando la madre muore, le asperità del carattere del padre si accentuano e portano alla luce una violenza sempre trattenuta. Chissà se è a causa della durezza della vita in casa, di questa ruvidezza o per la mancanza di affetto, ma a un certo punto Alice inizia a levitare. Da principio, involontariamente, ma poi in maniera sempre più controllata, fin quando il padre non scopre questo suo "potere".
«Quando guardai mia madre e mi accorsi di quanto malata fosse mi assalì una tristezza più profonda di quella che ero abituata a conoscere. Il mio cuore era in subbuglio mentre mi avvicinavo per metterle maldestramente il braccio intorno alle spalle magre e spioventi.»
Donna dalle molte vite, Barbara Comyns pubblica il suo primo romanzo quando ha già quarant'anni e i lettori si accorgono tardi del suo talento: "La ragazza che levita" è il suo quarto romanzo, il quale ebbe come ammiratore Graham Green, uno dei nomi più importanti della letteratura inglese del '900.

Quella che potrebbe sembrare, a una prima occhiata, una scrittura imperfetta, a parere mio possiede quella perfezione naïf che la rende unica e originale: pochi aggettivi ma suggestivi sono accostati a frasi molto lineari, creando un effetto di meraviglia nel lettore per le immagini che veicolano.
«Il pavimento era talmente infuocato dal sole che potevo sentire il calore attraverso le scarpe. Mi ero dimenticata che fuori c'era l'estate.»
Alice è cresciuta in una casa senza amore, dove la fuliggine della delusione ha ricoperto qualsiasi sentimento possa mai essere stato provato dai suoi genitori. Serpeggia sottilissima una vena di violenza che, più che concretizzarsi in gesti, si dispiega in sguardi, indifferenza e ostilità diffusa. Alice ascolta i racconti della madre, della sua infanzia felice in campagna e dell'incubo del matrimonio col padre, un uomo le cui ambizioni deluse hanno dato luogo a una crudeltà bestiale.
In un clima del genere, non c'è spazio per nessun colore, per nessun sogno o aspirazione di felicità, eppure Alice osa sperare. Osa immaginarsi felice in un altro luogo, in un altrove pieno di sole, con una casa che profuma di biscotti e un uomo capace di abbracciarla con tenerezza.
«I giorni sull'isola avevano la consistenza dei sogni e lentamente scorrevano via. Fu scioccante quando qualcosa dal mondo esterno aprì uno squarcio in quella serenità nebulosa.»
Il racconto che Barbara Comyns fa della vita grama e triste di Alice non è volto a suscitare pietà e, proprio per questo e nonostante questo, squarcia il cuore. Non c'è niente di più straziante della disperazione che si attacca alla pelle, si insinua nelle ossa, fino a diventare un elemento vitale come il sangue. E Alice sembra fatta di qualcosa di impalpabile ma potentissimo, qualcosa di oscuro e leggiadro che la porta a sollevarsi al di sopra delle cose e del mondo.

Alice levita, suscitando paura e ribrezzo in chi la vede, come se questi sentimenti la abbassassero - finalmente - al livello di mostruosità di tutti quelli che la circondano: il padre, la sua amante e chiunque la incontri, l'hanno sempre considerata distaccata da qualsiasi cosa, lontana dalle provocazioni e da qualsiasi rappresaglia. 
Questa sua stranezza la rende paradossalmente umana, membro di quel gruppo di esseri che ogni giorno assecondano la propria efferata natura. L'epilogo è l'apoteosi di qualsiasi atrocità che ha trovato terreno fertile in ogni pagina del libro.

"La ragazza che levita" è una favola grottesca e meravigliosa, è il racconto commovente della bellezza e dell'orrore di un animo delicato che si mescola allo sterco in cui viene gettato dalla crudeltà umana. 
«Potevo fluttuare a mio piacimento; non era un sogno, né una malattia. Potevo davvero levitare. Mentre camminavo verso casa nel pomeriggio morente, sentii un orgoglio tutto nuovo.»


[libro omaggio della casa editrice]

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