Recensione: Un lavoro perfetto di Tsumura Kikuko


«Lo sai che non c'è bisogno di impegnarsi così tanto, vero?»
«È il mio lavoro».
«Appunto! Proprio per questo non dovresti darti tanto da fare...».

L'annoso dilemma "si lavora per vivere o si vive per lavorare?" raggiunge abissi di inusitata indeterminatezza nel romanzo di esordio di Tsumura Kikuko, "Un lavoro perfetto" [Marsilio].

La protagonista senza nome è una giovane donna che, dopo aver lasciato il lavoro a cui ha dedicato quattordici anni della sua vita, si reca dalla consulente al lavoro, la signora Masakado, rivolgendole una richiesta quanto meno insolita: vuole un lavoro senza responsabilità.
Nonostante la stranezza, la signora Masakado si impegna ad accontentarla e per cinque volte - tanti quanti sono i capitoli - le trova un lavoro in una società di videosorveglianza, in un'agenzia che crea le pubblicità sugli autobus, nell'ufficio creativo di una fabbrica di cracker di riso, poi nello studio di un piccolo disegnatore di manifesti e, infine, come addetto alla manutenzione nel capanno di un parco nazionale molto esteso e visitato.

Di volta in volta, la donna entra in contatto con realtà completamente diverse tra loro e diverse anche da lei e dalle sue competenze e, nonostante l'iniziale ritrosia, riesce sempre a guardarsi attorno e a creare un legame, anche minimo, con i colleghi e con il ruolo che deve ricoprire.
Insieme a lei, entriamo negli uffici giapponesi e conosciamo uno spaccato della società nipponica, con ritmi di lavoro in alcuni casi molto duri e condizioni alienanti. Così, scopriamo che ha lasciato il suo precedente lavoro dopo un esaurimento nervoso dovuto alle alte responsabilità e al fatto di non avere altro tempo per la sua vita, quindi la sua richiesta iniziale acquista ragionevolezza.

«Non ho intenzione di farmi coinvolgere più di quanto sia strettamente necessario. Ho smesso con certe cose».

Tsumura Kikuko ha vinto il prestigioso premio Akutagawa e con questo romanzo d'esordio dimostra di saper parlare in maniera delicata e involontariamente divertente di un tabù come il burn-out: ogni capitolo ci mostra condizioni di lavoro differenti che, però, hanno in comune l'isolamento, l'assorbimento totale delle energie e di qualsiasi aspirazione di vita. La protagonista passa dal problema di non potersi far spedire gli ordini perché non è mai in casa per poterli ricevere, a non conoscere i negozi del suo stesso quartiere perché entra in ufficio che sono ancora chiusi ed esce che hanno già chiuso.
L'amore per il suo lavoro diventa una passione tossica da cui sfuggire per salvarsi.

Mi è piaciuta l'atmosfera quasi magica, sognante, di certe situazioni descritte e mi hanno fatto apprezzare ancora di più la narrativa giapponese contemporanea, a cui da qualche tempo guardo sempre con maggiore interesse. Kikuko narra con leggerezza il disagio di non ritrovarsi più nella pelle che si è sempre ritenuta propria e il dolore strisciante di dover rinunciare a qualcosa che si ama, perché proprio quell'amore totalizzante per il suo lavoro stava lentamente distruggendo la vita della protagonista.

In un percorso più spirituale che lavorativo, la protagonista impara a conoscersi e ad abbracciare serenamente il cambiamento e noi con lei: quelli che nella definizione sembravano lavori bizzarri, quasi inutili, si rivelano spunti di interessanti riflessioni anche per il lettore.
Perché, sebbene non possiamo ancora stabilire in maniera definitiva se si vive per lavorare o si lavora per vivere, sperare che vada tutto per il meglio può essere un buon metodo per accettare i cambiamenti e gli imprevisti, lavorativi e non.

«Chiunque può sentirsi così, con la voglia di scappare da un lavoro in cui un tempo credeva, di allontanarsi da un percorso quando capisce che non è più quello giusto da seguire».


[libro omaggio della casa editrice]

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