Recensione: Daisy Jones & The Six di Taylor Jenkins Reid

«Non hai visto niente nella vita finché non hai visto Daisy Jones in pelliccia che balla a piedi nudi su un pianoforte e canta "Mustang Sally".»

Ci sono libri che entrano nel mio radar da subito e che poi, per ragioni inspiegabili, tardo a leggere. Quando poi succede - perché succede sempre che li legga, presto o tardi -, mi chiedo perché abbia voluto rimandare così tanto quel piacere che, a giorni dall'ultima pagina, non mi lascia ancora.
Il romanzo "Daisy Jones & The Six" di Taylor Jenkins Reid [Sperling & Kupfer] rientra a pieno titolo nella situazione che ho descritto sopra, con l'aggravante che, appena finito il libro, ho subito iniziato la serie che ne è stata tratta, su Prime. Un'emozione amplificata dalla visione dei personaggi in carne e ossa e dalla trasposizione quasi completamente fedele del testo.

Che viaggio, che è stato!


Il romanzo si sviluppa come una lunga intervista che coinvolge i membri del gruppo e chi ruotava attorno a loro negli anni della loro ascesa, fino allo scioglimento improvviso proprio all'apice.
Le voci si rincorrono nei ricordi, aggiungendo dettagli agli episodi più clamorosi, smentendo storie e arricchendo il tutto di punti di vista diversi, di prospettive sfalsate.
Gli sguardi si incrociano e i pensieri sono controversi, nessuno riesce a indovinare cosa c'è nella testa dell'altro, ma durante l'intervista noi sapremo la verità su quegli anni burrascosi.

«Hai presente quelle persone che - si incontrano di rado - sembrano attraversare la vita fluttuando? Daisy fluttuava qua e là, indifferente a come girava davvero il mondo.»

Daisy Jones è solo una ragazzina quando, forse troppo presto, scopre il rock: abituata a scappare di casa per andare nei club - in cui riusciva a intrufolarsi grazie a mille stratagemmi -, Daisy vive con genitori indifferenti e anaffettivi, e solo quando scopre la musica si sente finalmente a casa.
I fratelli Dunne, Billy e Graham, crescono a Pittsburgh, senza il padre: mettono insieme una band che, pian piano, diventa la loro vita. I The Six dominano la scena musicale della loro città e anche di Los Angeles, nel momento in cui un loro contatto consiglia loro di spostarsi perché è sulla costa ovest che avviene la magia dell'industria musicale.

Quando Daisy incontra i The Six sono fulmini e saette, lo si capisce dal primo momento. Soprattutto tra Billy e Daisy la tensione è insostenibile.

«Per me la scelta più comoda era quella di odiarla. Era l'unica che potessi fare.»


La passione tra Billy e Daisy è palpabile, se ne accorge il pubblico, lo sentono quelli che lavorano con loro, persino Camila, la moglie di Billy ne è consapevole.
Sono gli anni '70, il rock è un modo di vivere che, nel caso di Daisy e della band, diventa un vortice di dipendenze, emotive e chimiche: sono una famiglia e, come tutte le famiglie, sanno quali tasti toccare per ferirsi e, dopo, guarirsi. E lo fanno, tutte le volte che ne hanno la possibilità.

Taylor Jenkins Reid costruisce un mondo talmente complesso e credibile che, durante la lettura, mi sono convinta che Billy Dunne fosse davvero esistito negli anni '70, che abbia amato sua moglie, ma anche Daisy. Ancora adesso fatico a rendermi conto che i The Six non hanno cambiato la storia della musica, che le canzoni che ascolto su Spotify non sono state delle vere hit di quegli anni di fuoco del rock.

Questo è il secondo libro che leggo dell'autrice - dopo "I sette mariti di Evelyn Hugo" - e la magia è successa di nuovo: mi ha convinta che la storia che mi racconta è vera, che i personaggi sono persone reali che hanno vissuto vite straordinarie. Stavolta, però, a differenza di Evelyn Hugo, cercando in rete, si trovano migliaia di risultati sulla band, sulle canzoni, c'è la copertina del loro album più famoso - Aurora -, ci sono le foto in studio. Grazie alla serie, direte voi, ed è vero: Sam Claflin è Billy Dunne e Riley Keough è Daisy Jones, non potrebbero avere altro volto, ma c'è di più.

Il romanzo riesce a coinvolgere talmente tanto il lettore nella storia che si è disposti a credere a tutto, a ridere, a piangere, a tormentarsi con loro. Ad ascoltare le loro canzoni ancora, e ancora, e ancora.


«Erano magnetici. È l'unico aggettivo che renda l'idea. Magnetici.»





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