Recensione: Il treno dei bambini di Viola Ardone



«Il treno da lontano è tale e quale a uno che ho visto nel negozio di giocattoli al Rettifilo. Man mano che si avvicina, si fa più grande e poi diventa enorme. Tommasino si nasconde dietro a me per la paura. Non si accorge che tengo paura pure io.»

Quanti libri ho letto che poi ho dimenticato?
Quelli che ricordo sono quelli che mi hanno graffiato, che mi hanno fatto male e che mi hanno fatto piangere lacrime di sangue.
Ho letto "Il treno dei bambini" di Viola Ardone [Einaudi] l'anno scorso, sottolineando, trascrivendo frasi e prendendo appunti con gli occhi appannati dalle lacrime.
Ho riletto alcune pagine e frasi e anche adesso l'effetto è stato lo stesso: brividi.

Immaginate Napoli, immaginatela nel 1946. Immaginate i rioni più poveri e immaginateli dopo una guerra. I pittoreschi scugnizzi ritratti dalle foto d'epoca erano più di bei soggetti da cartolina: quegli scugnizzi laceri e con gli occhi di brace erano bambini poveri, affamati, in molti casi orfani, anime in pena che ogni giorno lottavano per sopravvivere e non immaginavano nemmeno lontanamente cosa significasse una carezza.

«Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male.»
 
In uno scenario di disperazione, il Partito comunista pensò di prendere questi bambini, caricarli su un treno e spedirli al nord che, seppur non ricchissimo, aveva l'abbondanza della terra, senza alcun razionamento alimentare. Nell'idea c'era di mandare i bambini a vivere un po' di benessere, mangiare, passare alcuni mesi di vita diversa e poi tornare a casa, a Napoli. Dei bambini partiti, molti non sono più tornati.

Amerigo viene messo sul treno da sua mamma, troppo stanca di sopravvivere lei stessa e di guardare la fame sulla faccia del suo unico figlio. O meglio, l'unico che le è rimasto dopo che Luigino è morto di malattia. Amerigo è cresciuto dall'intero quartiere, come succede ai bambini di strada, e si rifugia spesso dalla Zandragliona, vicina di basso e voce del popolo, da cui apprende le storie degli altri e anche della sua stessa famiglia.

«Io sono figlio unico, dato che con mio fratello maggiore Luigi non abbiamo fatto in tempo a conoscerci. Non abbiamo fatto in tempo neppure con mio padre, sono nato in ritardo con tutti. Meglio, però, così mio padre non si deve vergognare a portarmi sopra al treno.»

Attraverso gli occhi di Amerigo guardiamo in faccia al dolore della madre, una donna che deve scegliere tra staccarsi la carne e lanciarla nell'abisso dell'ignoto, o vedere morire giorno per giorno la speranza negli occhi di un bambino.
Così, decide di mandarlo via, al nord ma è come se lo mandasse in Russia per quanto è lontano e definitivo il distacco. Amerigo si adatta come può farlo un bambino spaventato che improvvisamente si trova senza la terra sotto ai piedi: ha sette anni, ma forse anche se ne avesse settanta, si sentirebbe spaesato in mezzo a persone che parlano un dialetto diverso e hanno un diverso alfabeto della vita.

Perché? Chi ti manda via ti vuole bene?
- Amerí, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene.

La lingua che parla Amerigo - e che mentre leggiamo ci sembra di sentire - è carnale, materica, si muove in maniera vitale dai pensieri alla bocca, come una melodia che passa tra i vicoli e ti entra in testa anche senza che tu lo vuoi.
Viola Ardone ha affidato al linguaggio la netta divisione tra prima e dopo, tra Napoli e dopo Napoli, tra la vita delle emozioni e quella lontana.
In questa divisione, tocca il cuore il dialetto che Amerigo snocciola nei pensieri, prima di trasformarlo in parole, e sono proprio i pensieri i primi a cambiare durante la sua nuova vita.
Per l'Amerigo di dopo, nonostante alcune riflessioni che mi hanno emozionato, ho provato poca empatia e anche per questo mi ha fatto piangere, perché avevo perso, con avanzare dei capitoli, la voce di quel bambino che tanto avrei voluto stringere.

Il tema della lontananza mi è dolorosamente caro e ogni mezzo di sopravvivenza ad essa - che sia dimenticare o continuamente ricordare - diventa una tacca sanguinante sul mio percorso personale.

"Il treno dei bambini" è un libro che non si dimentica, perché fa male, da qualsiasi prospettiva lo si legga, ma leggerlo diventa un'esigenza per allargare il proprio sguardo emozionale.

«La lontananza tra noi è diventata un'abitudine. Abbiamo disertato tanti appuntamenti. Dal momento in cui mi hai messo su quel treno, io e te abbiamo preso binari diversi, che non si sono più incrociati.»

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