Recensione: Lullaby Road di James Anderson



Abbiamo lasciato Ben Jones col cuore a pezzi e una vita da ricostruire dopo aver finalmente trovato l'amore e averlo perso per sempre in "Il diner nel deserto" e lo ritroviamo nel secondo capitolo della serie del deserto, "Lullaly Road" di James Anderson [NN Editore].
L'estate è finita nel deserto dello Utah e l'inverno si fa annunciare dal silenzio che piomba su tutto. Il vento taglia le rocce e la faccia di chi si azzarda ad uscire: Ben Jones, col suo autoarticolato è tra i temerari che, all'alba, si mettono in marcia sulla 117.

«Quanto a me, tra inferno e paradiso, Dio poteva anche rimettermi sulla 117. Non mi sarei opposto, anche degli avrei chiesto educatamente di coprire il costo della benzina e di assicurarsi che i clienti mi pagassero, puntualmente se possibile. Non era il paradiso e non era l'inferno, solo un rettilineo che gli passava in mezzo. Forse aveva qualcosa di entrambi. Era la 117.»

Una mattina fredda come le altre, Ben si ferma al solito distributore di benzina per fare rifornimento e trova un biglietto per lui: sotto al biglietto c'è un fagotto di panni e, tra questi, spunta la testa di un cane. Il fagotto è un bambino che il biglietto dice essere il figlio di Pedro, il gommista che lavora proprio in quel distributore e con cui Ben ha qualche volta scambiato dei saluti ma niente di più.
Possibile che uno sconosciuto gli lasci un bambino - suo figlio! - dopo averlo appena intravisto qualche volta? Ben non ne viene a capo, ma decide di caricare il bambino e il cane che lo protegge sul camion, perché altrimenti significherebbe farli morire nel freddo.

Inizia così un viaggio nel viaggio, una assoluta novità per Ben che ha sempre vissuto e viaggiato da solo: avere un altro essere umano che respira accanto a lui, non lo rassicura; sentirsi addosso gli occhi giudici di un cane che sembra capire più di quello che uno immagina, lo mette a disagio, eppure non può che sentirsi profondamente responsabile per il loro benessere.

La 117 diventa un inferno di ghiaccio dove gli uomini sono impotenti di fronte alla forza della natura: James Anderson descrive una prigione claustrofobica di vento e nebbia, dove non si vede niente e non ci si può muovere. Ogni aggettivo, ogni frase tagliata col diamante, riesce a cogliere il senso di isolamento di Ben e degli altri disgraziati costretti ad avere a che fare con uno dei deserti più aspri del mondo.

«C'era una parte di me che era sempre spaventata; avevo paura di me stesso, di cosa avevo fatto e di cosa avrei fatto, di cosa potevo fare. Ogni volta era un gioco di equilibri, e quasi sempre riuscivo a restare sul filo.»

Ritroviamo alcuni dei personaggi del primo libro come Walt Butterfield che condivide il dolore della perdita con Ben e che mantiene sempre chiuso il Premiato Diner del Deserto; e John, il Predicatore, che porta in giro lungo la 117 la sua croce, di legno e metaforica; Ginny che ha partorito la sua bambina e si è molto legata a Ben. Su ognuno di loro sappiamo qualcosa in più rispetto al primo libro, ma conosciamo anche nuovi personaggi che ci aiutano a scoprire sempre più aspetti della complessa personalità di Ben.

"Il diner nel deserto" mi ha fatto affacciare su una realtà dura e cruda che, pagina dopo pagina, ho iniziato ad amare, mentre "Lullaby Road" mi ha riportato in quei luoghi pieni di suggestioni, per visitare amici conosciuti qualche tempo addietro e con cui è stato piacevole prendere un caffè guardando il sole che tramonta dietro le rocce rosse.

Leggete la citazione qui in fondo e poi ditemi se non vi sentite avvolgere dalla luce, dalla nebbia, dalle parole ricamate per far filtrare una poesia rara - e rarefatta - che non lascia indifferenti.
Io ho snocciolato sulla lingua numerose volte queste frasi e ogni volta ne ho gustato la pienezza. 
È  anche questo che cerco in un buon libro, che mi faccia sentire la musica della storia e, allo stesso tempo, la nostalgia per i personaggi quando la storia giunge alla fine.

«Nell'ora prima dell'alba, quando il sole era una promessa distante e la temperatura era arrivata al minimo, ci addentrammo in una nebbia luminosa, separata dall'oscurità, che si allungava in strati incandescenti, si spostava e si posava, alternando strisce sottili di buio notturno a sporadiche fasce di luce impalpabile. In quel bagliore vaporoso il vento cessò e l'aria cominciò a riscaldarsi leggermente, ma non mi feci domande sulla nebbia luminosa che sembrava salire dal suolo come un fuoco d'erba ardente.»



[libro omaggio della casa editrice]

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