Recensione: Almarina di Valeria Parrella


Non capitava da tempo, lo ammetto, che un libro mi facesse perdere il sonno. Nel senso che non sono riuscita a dormire finché non l'ho finito.
È successo ad agosto. Una sera particolarmente calda mi ha convinto ad assecondare il desiderio di leggere un libro che era uscito un mesetto prima: non avendo librerie nelle vicinanze, ho acquistato con un clic l'ebook e, nel giro di una decina di minuti, ero immersa nella lettura.

"Almarina" di Valeria Parrella [Einaudi], fin dall'azzurrissima copertina, ha alleviato quel malessere causato dall'afa, quel senso di inadeguatezza dato da giornate lunghissime passate a escogitare trovate sempre più raffinate per avere un po' di fresco, ridendo amaramente in faccia al luogo comune che in Svizzera fa freddo tutto l'anno.
«Non saprò mai dire se è Napoli o se sono io. Se mi grava addosso tutta assieme perché sono stati giorni plumbei, pieni di paura e dubbi, e sospetto. Oppure se è davvero la vista del palazzaccio dall'altra parte del cancello, l'onda gialla che gonfia, le cupole sotto le nubi, architravi troppo pesanti perché una donna sola possa reggerli. Se è fatta, la realtà, di terrazzi irraggiungibili, poteri irraggiungibili come li raccontano; oppure siamo solo noi in uno di quei giorni rari in cui, vestiti bene, affrontiamo le scale che ci cambiano la vita.»
Sarà stato anche grazie a tutte queste metaforiche "catene" che ho sperimentato il senso di libertà che prova Elisabetta Maiorano ogni volta che entra nel carcere di Nisida, dove insegna matematica e dove impara che la vita può essere crudele a ogni età. È nel carcere che la vita di Elisabetta, solitaria e grigiamente abitudinaria, incontra la vita frammezzata di Almarina, una nuova allieva appena arrivata, che parla poco ma alla sua insegnante di matematica sembra comunicare molto più dei risultati delle equazioni che le vengono assegnate.

Tra Elisabetta e Almarina si instaura un legame quasi muto, fatto di piccoli gesti, poche parole, segni che solo le anime affini sanno riconoscere tra loro: sarà questo silenzio pregno di significati che porta Elisabetta a riconsiderare tutte le certezze che, pur faticosamente, ha messo insieme nella sua vita.
Quando si esce dalla propria zona comoda, può succedere di tutto, perché già il primo passo fuori dai propri confini è un'apertura al mondo che invita la vita a fare di noi quello che vuole.
«Non riusciremo mai a dirvi davvero tutto quello che le nostre retine hanno visto impresso, né cosa, di quelle immagini, ci ha trasformato per sempre il cuore. Perché siamo donne in divenire, e quando saremo uscite di qui già saremo diverse.»
Leggendo "Almarina", come dicevo, ho sperimentato un senso di graduale liberazione e il merito va alla scrittura di Valeria Parrella che ha saputo guidarmi da quell'oppressione al petto che Elisabetta prova ripensando con amarezza al suo passato, alle stanze vuote e buie della sua casa borghese, fino al sospiro profondo che parte dalla pancia, dal centro del nostro essere e che ci comunica che, finalmente, siamo liberi anche se non sapevamo di essere prigionieri, che siamo salvi.

Lasciatevi andare alla deriva nel mare che contiene "Almarina", che è un tratto piccolo visto da Napoli, ma che diventa un oceano se si parte dalle finestre sbarrate di Nisida, con un orizzonte lontanissimo come lontane sono tutte le terre che sanno di futuro.

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