Recensione: Febbre di Jonathan Bazzi


«Tre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via.»

Un libro scritto in prima persona, può essere considerato un'innovazione nella narrativa italiana? Se il libro ha in sé una storia potente, di periferia ed emarginazione, di famiglia e dolore, su cui un dio svolazzante ha spolverato glitter e arte, allora sì, si può dire che abbiamo tra le mani qualcosa di assolutamente nuovo.

Quando avete sotto gli occhi "Febbre" di Jonathan Bazzi [Fandango Libri], finalista al Premio Strega 2020, siate certi di stare per leggere un libro che di comune non ha niente.

Jonathan è nato a Rozzano, alle porte di Milano, dove la grande metropoli diventa paesone, quasi un ghetto per meridionali, operai, lavoratori alla giornata che vi tornano solo per dormire. Anche la famiglia di Bazzi è composta dal nuovo pidgin della convivenza forzata di periferia, emigranti napoletani e milanesi per cui non smetteranno mai di essere terroni.
L'aria che respira Jonathan non ha il profumo della cultura e della tolleranza, per una bambino che ama stare con le donne ma sa di poter amare solo gli uomini. Donne come la madre, tosta, dura al di là di qualsiasi tenerezza, alla ricerca di un suo posto nel mondo. Uomini uguali e diversi da quel padre sciupafemmine e incostante anche con il sangue del suo sangue.
Non c'è sollievo, non c'è via d'uscita, così lui si rifugia nell'unico posto dove si sente se stesso, la biblioteca di quartiere, e questo lo rende ancora più strano agli occhi dei ragazzini che già lo tormentano perché non gioca con loro nei cortili tra i palazzi.

«Nel posto in cui sono cresciuto le cose sono chiare: i maschi sono fatti in un modo - motorino, calcio, figa -, le femmine in un altro. Si sta da una parte oppure dall'altra.»

È il 2016 quando Jonathan inizia a stare male, una febbre non altissima ma costante che lo sfianca, lo indebolisce, gli toglie qualsiasi volontà. Dopo diversi accertamenti a vuoto, arriva quella che sembra più una sentenza che una diagnosi: HIV. 
Nonostante la scienza e la razionalità gli dicano che la medicina ha fatto passi enormi per assicurare una vita quanto più lunga e normale possibile alle persone nella sua condizione, l'ombra della morte non tarda ad affacciarsi nelle giornate di Jonathan immobilizzandolo in un tempo che si è fermato, in una vita messa in pausa.

«Ridono, scherzano, che io stia bene o male a questi non gliene frega niente. Il mondo va avanti anche se io sono in pericolo - Non fare la vittima. Ma è vero: per ogni malato la sua condizione è un evento assoluto. L'enigma che dovrebbe fermare il corso del tempo, la vita degli altri.»

"Febbre" è un libro vero non solo perché racconta una storia vera, ma perché di quella storia non nasconde i lati oscuri, le crepe, così come il vortice frenetico di feste, uscite, la ricerca spasmodica di un corpo, un animo in cui immergersi, per sentire qualcosa, per rompere il muro di indifferenza che il protagonista si è costruito dentro per non cadere a pezzi.

«Gli unici che possono farci male davvero siamo noi stessi.»

Bazzi racconta la sua malattia come qualcosa che non lo definisce, come persona e come malato: insieme a lui, il lettore entra ed esce dall'ospedale, in cerca di una diagnosi che dia ragione a quello che sente più che a quello che riportano i valori del sangue scandagliati dagli esami. 
La claustrofobica sensazione di essere all'interno di una bolla, dove i suoni arrivano ovattati, dove arriva mitigato dai ricordi graffianti anche l'amore di una madre finalmente pacificata, dove la vicinanza costante del compagno Marius, diventa tutto un dettaglio sbiadito e acquoso in un quadro vitale su cui lancia stanche pennellate l'autore. Al lettore arriva tutto questo e vorrebbe capire, saperne sempre di più, in una sorta di sfrenato voyeurismo che diventa sincera ansia per le condizioni di salute di quello che abbiamo conosciuto come un bambino solo di Rozzano, cresciuto dai nonni e dai pregiudizi, più che dalle carezze.

«La ferita dei non amati non si rimargina più?»

Un esordio letterario che si è meritato la finale del Premio Strega 2020 e che ha conquistato un posto di rilievo nel panorama della letteratura italiana contemporanea, per lo stile innovativo e profondamente emozionante.

Leggete "Febbre" se avete voglia di un pizzicotto che vi lascerà il livido, un dolore che va ben oltre la superficie, ma che vi sveglierà una volta per tutte regalandovi occhi nuovi, forse disillusi, ma brillanti e aperti irrimediabilmente sul mondo, proprio come quelli che ipnotizzano fin dalla copertina del libro.

«Resterò per sempre in via dei Giacinti 10, al capolinea del 15.
Con la paura che arrivino i maschi.»

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