Recensione: L'Arminuta di Donatella Di Pietrantonio



«Ero l'Arminuta, la ritornata. Parlavo un'altra lingua e non sapevo più a chi appartenere.»

Quando arrivi in un paese, difficilmente ti chiedono il cognome, ma «A chi appartieni?» come se la famiglia fosse l'unico riconoscimento che ti concedono. E, in fondo, è così.

"L'Arminuta" di Donatella Di Pietrantonio [Einaudi] racconta la storia di una mancata appartenenza, di una bambina che viene sradicata e poi rimessa nello stesso solco in cui le radici, ormai atrofizzate, non attecchiscono più.

È estate e la voce narrante ci racconta dell'arrivo in questa casa dove non era mai stata, carica di valigie, scortata da quello che fino a quel momento aveva creduto suo padre. Senza nessuna informazione, viene lasciata lì e, nello smarrimento, apprende che quel nucleo confuso e misero di esseri umani è la sua vera famiglia. Da quando aveva sei mesi, infatti, era stata data a dei cugini del padre che non avevano figli e questi l'avevano cresciuta per tredici anni, fino a quell'inspiegabile restituzione.

«A tredici anni non conoscevo più l'altra mia madre. Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse.»

Oltre alla madre, distratta e avara di affetto, c'è il padre, silenzioso e rude, e cinque fratelli: Vincenzo, il maggiore, scapestrato, appassionato, con qualcosa negli occhi che la attrae e spaventa; poi Sergio e Domenico, ostili e litigiosi; l'unica sorella, Adriana, ha tre anni in meno ma sembra saper stare al mondo meglio di lei e, infine, il piccolo Giuseppe, dolce, bisognoso di attenzioni, chiuso in un mondo tutto suo.
Lei, l'Arminuta, è straniera, misteriosa nel suo essere cresciuta diversamente, parla una lingua differente nei gesti, negli sguardi, nell'amore. O meglio, lei aveva avuto una parvenza d'amore e di felicità che a tutti quelli che ora la circondano sembra completamente aliena.

«Era mia sorella, ma non l'avevo mai vista. Ha scostato l'anta per farmi entrare, tenendomi addosso gli occhi pungenti. Ci somigliavamo allora, più che da adulte.»

In tutta l'estraneità che la circonda, la ragazza trova, quasi suo malgrado, nella sorella Adriana una complice, una sponda di appartenenza e di calore. In un modo ferino, senza tante parole e spiegazioni, le due bambine trovano un contatto, prima fisicamente dormendo nello stesso letto, e poi spiritualmente: sono diverse come il giorno e la notte, riflessiva e timida una quanto impulsiva e sfrontata l'altra, creano una inaspettata comunione di anime sperdute che non hanno mai conosciuto una carezza.

«Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.»

Quasi inesistente il rapporto con la madre naturale, una donna stanca, sfiancata dai figli e dalla miseria, capace di pochi gesti silenti e, a suo modo, significativi, che non ce la fa a subentrare alla madre adottiva nell'affetto di quella figlia allontanata. Pian piano, la ragazza sviluppa un'avversione per quelle due donne che hanno rinunciato a lei con facilità, chi prima e chi dopo, senza tenere in alcun conto la responsabilità affettiva nei confronti di una persona inerme.

L'Arminuta ritorna senza mai ritornare, è lì fisicamente ma non sa chi è né cosa ci fa tra persone che nulla hanno in comune con l'idea che fino a quel momento ha avuto di sé. L'allontanamento da quella che credeva la sua famiglia l'allontana definitivamente anche da sé stessa e, ad un certo punto, si ha l'impressione che si lasci semplicemente vivere.

«Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l'altra mi aveva restituita a tredici anni.»

Uscito nel 2017, "L'Arminuta" ha vinto il Premio Campiello di quell'anno e si è imposto all'attenzione generale come un romanzo doloroso ma necessario, per quel suo modo scabro e appassionato di raccontare la mancanza, l'assenza perenne di un rifugio, di quel calore che fa sentire a casa.

Questo romanzo mi ha conquistata come fanno le cose di cui non ci si rende conto ma che si scopre di aver sempre avuto dentro: l'amore e la sua mancanza, la famiglia e la sua assenza, le ferite dell'anima, quell'imperituro sanguinare senza saperne davvero la ragione, ogni parola di Donatella Di Pietrantonio riesce a scavare un solco di appassionata consapevolezza.
Ho sentito la voce della protagonista da vicino: lo stile della narrazione amplifica ogni accento, ogni incertezza, in maniera magistrale al lettore viene data la possibilità di sentirne tutte le inflessioni.

Da qualche giorno è arrivato il libreria il seguito, "Borgo Sud" [Einaudi] di cui vi parlerò presto.

Fatevi un regalo: leggete "L'Arminuta".

«Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze non sapevo più da chi provenivo.
In fondo non lo so neanche adesso.»


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