Recensione: Harvey di Emma Cline



«Invece forse a Harvey era sfuggito qualcosa, qualcosa di evidente. Possibile che i suoi istinti l'avessero allontanato tanto dalla realtà? Forse... forse. Come quando sua moglie gli diceva che lo amava. Lui spesso le aveva creduto.»

Quante versioni ci sono della verità? Sarebbe bello dire che ne esiste una sola, ma sarebbe anche molto semplicistico. Probabilmente la risposta che più si avvicina al vero è che esistono molteplici verità, tanti quanti sono i punti di vista coinvolti in una vicenda.

Harvey si sveglia all'alba in una casa che non è sua, ha un disagio diffuso sia fisicamente che psicologicamente. Harvey è in attesa del giudizio della giuria sul suo conto, mancano ventiquattr'ore, e cerca di ricostruire i passi che lo hanno portato a quel faticoso risveglio. È stato accusato di molestie e aggressioni sessuali da un numero impressionante di donne: i messaggi che si sono scambiati, gli inviti alle feste, i lavori che ha procurato loro, tutte le sue attenzioni, qualsiasi sua simpatia è stata letta attraverso la lente dell'abuso, ma lui non riesce a focalizzare.
Scherza con gli avvocati, cerca di farli ridere e non capisce perché gli rispondano con un tono rigido: lui ha la sicurezza che, con quello che li paga, dovrebbero ridere a ogni suo schiocco di dita, così hanno sempre fatto, così dovrebbero fare anche ora e invece sembrano sfuggenti.

Quel processo si risolverà con un nulla di fatto, giusto? Non ci sono abbastanza prove contro di lui, non è così? Quelle ragazze hanno travisato le sue attenzioni, le sue gentilezze, e la giuria invaliderà le loro testimonianze, no?

La voce del personaggio che dà il titolo a "Harvey" di Emma Cline [Einaudi], in poco meno di cento pagine, diventa un tarlo che si pianta saldamente nelle convizioni che la cronaca ci ha istillato e, per un momento, anche noi non riusciamo a focalizzare.
Se non fosse che l'Harvey del titolo è Harvey Weinstein, il produttore cinematografico americano accusato da circa ottanta donne - appartenenti all'industria cinematografica e non - per molestie sessuali, forse ci verrebbe il dubbio che, in fondo, è tutto inventato.

Emma Cline ci presenta un uomo appesantito, sofferente, malato, quasi prigioniero in una casa nel Connecticut che non è la sua: abituato all'azione e a decidere qualsiasi cosa, è talmente annoiato che si mette a guardare in giardino e scambia il vicino per lo scrittore Don DeLillo, di cui avrebbe sempre  voluto portare sullo schermo il libro Rumore bianco.
Questo Harvey non ha il glamour dei red carpet più importanti del cinema, né la risolutezza del manager a cui tutto è concesso: Cline ci dà la possibilità di guardare dal buco della serratura, senza filtri, e il ritratto che ne viene fuori è meschino, imbarazzante, spesso ridicolo.

Ho apprezzato molto il racconto senza infiorettature, lo stile diretto e, allo stesso tempo, il modo un po' subdolo di insinuare una diversa possibilità di epilogo quando le cronache ci hanno mostrato che il finale è solo uno.
Leggete "Harvey" per imparare, in un certo senso, a ragionare sul backstage delle notizie più inflazionate dai media.

«Ti saluto!
Ti saluto, Harvey!
Cos'era Harvey se non una sagoma di cartone, davvero, un'idea di sé stesso? Che buffo che se la fosse presa tanto. Tutta fatica sprecata.
Ciao ciao ti saluto, buona buona notte.
Dormi bene.»

[libro omaggio della casa editrice]

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