Recensione: Tempesta madre di Gianni Solla



«Ero pronto a diventare quello che desiderava, la mia intelligenza, ereditata dal ramo della sua famiglia, non dall'altro che vedeva solo falliti e macellai con la terza media, non aveva limiti.»

Il corpo di donna che ci mette al mondo fa parte di noi, in ogni atomo, che lo vogliamo o no. La madre è una terra che ci dà riparo e radici. Oppure no, può essere arida di sassi e spine e renderci consapevoli della durezza della vita prima di quanto ne abbiamo bisogno.

La madre di Jacopo, il protagonista e voce narrante di "Tempesta madre" di Gianni Solla [Einaudi], è madre e figlia, contemporaneamente, di un bambino adulto che poi sarà un adulto bambino, mai sicuro di compiere il passo definitivo nella sua età.

«A carnevale mia mamma mi vestiva da Hitler. Ma come le saltava in mente. Le mamme degli altri bambini non ci invitavano, e io e lei andavamo a festeggiare all'autogrill a Capodimonte con una finta copia del Mein Kampf appoggiata su un tavolino a forma di spicchio di pizza.»

Jacopo è figlio di quella che lui chiama "la segretaria" e di un macellaio del Rione delle mosche, nella periferia di Napoli: l'una che parla solo in italiano, presa da crisi borghesi dovute al suo essere nata al Vomero in una famiglia istruita e culturalmente impegnata; l'altro chiuso nel dialetto delle bestemmie, nella praticità del lavoro e nella concretezza della carne (letteralmente e non).
Jacopo è nato da questi due mondi: parla solo italiano, a dieci anni recita a memoria le poesie di Majakovskij e ascolta Rachmaninov e Cajkovskij, appena può si rifugia nella cella frigorifera nella macelleria del padre e scrive pagine e pagine sulla carta per avvolgere la carne. Vive con sua madre - la loro famiglia è composta esclusivamente da loro due - col padre che compare brevemente per furiose litigate con la madre.

Jacopo è responsabile di una madre bambina, capricciosa, volitiva, piena di idee improbabili per sbarcare il lunario, il cui unico modo per prendersi cura di questo bambino dall'intelligenza prodigiosa è portarlo in giro per medici e ospedali, alla ricerca di una malattia immaginaria che, pagina dopo pagina, ci rendiamo conto essere l'unico modo che ha per mostrarsi materna agli occhi del mondo.

«Con la prima Fuji a focale fissa cominciammo a documentare la nostra famiglia, cioè io e lei. Però non siamo mai al centro dell'inquadratura. Viviamo nella periferia di quei ricordi, non ci possiamo permettere nemmeno di essere il soggetto delle nostre fotografie.»

Continui salti tra presente e passato, ci raccontano di una vita povera, sia materialmente che spiritualmente, laddove il piccolo Jacopo ha una profondità di sentimenti che difficilmente potrebbe essere compresa da una madre tutta concentrata su se stessa e da un padre che non ha l'educazione emozionale adatta per riconoscere un tale abisso nel figlio.
Quando, grazie al suo lavoro ai servizi sociali del Comune di Napoli, Jacopo raggiunge una certa stabilità economica, pur avendo una casa sua diversa da quella disordinata e fatiscente in cui è cresciuto, continua a rotolarsi in una miseria emotiva da cui sembra non riuscire a uscire.
Storie di una notte, donne di cui non gli interessa niente, corpi che dimentica un attimo dopo che sono usciti dal suo letto, niente riesce a riempire quel vuoto di cui nemmeno lui si rende conto.

«Nella cucina al sesto piano della palazzina non avvertiamo il tempo che passa. Siamo leggeri come fogli di carta mossi dal vento, sono i nostri giorni, non ne avremo degli altri.
Quella non era solo la mia infanzia, ma anche la sua.»

Gianni Solla ci regala un romanzo profondo e malinconico, spietato quando capita sotto l'occhio impietoso di bambino, ma non ho potuto fare a meno di riconoscere e lasciarmi accarezzare anche da una certa tenerezza ruvida, forse imbarazzata, ma indubbiamente presente.

Il padre, questo uomo che non sa essere presente se non con i gesti, con i pacchetti di carne che riempiono il frigo, con i soldi che dà a Jacopo affinché li amministri al posto della madre, ha in sé una dolcezza concreta di una generazione che non è abituata a esprimersi a parole, ma che pure, suo malgrado, ama.
Cosa sarebbe, allora, se non amore, il suo conservare gelosamente, per anni, tutti i quaderni finiti che Jacopo lasciava nella cella frigorifera, fitti di scrittura, carichi di quelle parole che, pur leggendole, lui non riesce a capire?
Cosa sarebbe, se non amore, il suo prendersi cura della madre di Jacopo, discretamente, con piccoli gesti, anche dopo tanti anni?

La scrittura di Solla è evocativa, emozionante, è la voce di Jacopo che pian piano acquista tenore nella sua drammatica rassegnazione a crescere. Musicale, poetica, la lingua utilizzata dallo scrittore napoletano è sfrondata dal dialetto, ma conserva la ricchezza di certi racconti orali pieni di dettagli e ricordi.

La città ci arriva come un miraggio lontano, in cartoline sporadiche - la casa della nonna al Vomero, l'autogrill a Capodimonte, l'appartamento a San Giovanni a Teduccio, la macelleria di quartiere -, forse perché il narratore non la vive davvero, potrebbe essere in qualsiasi luogo.

"Tempesta madre" è un romanzo grande, che va oltre le sue pagine e la sua storia, perché racconta di animi frammentati, sballottati dalle onde della vita, come relitti in balia di una tempesta. Proprio quella  tempesta che ha contribuito ad affondarli ma che, allo stesso tempo, non permette che sprofondino negli abissi.

«A volte ti sembra che nella vita tutto succeda senza un motivo, invece il motivo c'è sempre, solo che all'inizio non lo vedi. Se una cosa la puoi scrivere, allora vuol dire che la puoi capire.»


[libro omaggio della casa editrice]

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