Recensione: Il serpente di giugno di Tsukamoto Shin'ya


«Mi piacciono le ortensie, perché fioriscono dopo che le loro grandi foglie hanno bevuto la pioggia. Sogno che la loro bellezza duri all'infinito, ma la stagione delle piogge finisce sempre sul più bello.»

L'acqua è fonte di vita, ma in questo romanzo di Tsukamoto Shin'ya, "Il serpente di giugno" [Marsilio] diventa il flusso caldo del desiderio, che non riesce a scorrere liberamente e suppura, stagna in una soffocante e incessante pioggia che non dà scampo, che confonde i sensi e i pensieri.

Rinko lavora in una hotline di soccorso agli aspiranti suicidi. Ogni giorno parla con persone che hanno perso le ragioni e la voglia di vivere e cerca di fargli cambiare idea. Ogni giorno qualcuno sa che, dall'altra parte del filo, una voce, la voce di Rinko, sarà l'appiglio per non cadere nel buio della disperazione.
Rinko è sposata con Shigehiko, con cui ogni notte dorme ma non fa più sesso, acuendo il senso di solitudine che prova. Finché un giorno le arriva una busta contenente delle foto rubate, scatti che la ritraggono nell'intimità della sua stanza, mentre perde il controllo di sé stessa e si dedica all'autoerotismo.
Chi è l'autore di quelle diapositive? Chi ha violato il suo segreto più intimo?

Inizia così un inseguimento che, più che coinvolgere due persone - Rinko e Iguchi - ha per oggetto i desideri più inconfessati, il sentire più segreto e l'ultima opportunità per goderne. 

«Sì, finiamola! Diamoci un taglio! Chiudiamo la partita! Doveva pur esserci un limite a tutta questa follia! Ormai doveva aver soddisfatto le sue fantasie.»

"Il serpente di giugno" è un libro breve, ma con capitoli lunghi, in realtà flussi di coscienza che trovano finalmente modo per venire alla luce, monologhi in cui i protagonisti di questa storia riescono a essere, in ultima istanza, onesti con sé stessi. 
Iguchi è il socratico pretesto per tirare fuori l'inconfessabile e la sua crudeltà non è altro che un doloroso processo di maieutica, che recupera l'origine ostetrica del termine e, come tale, coinvolge sofferenza e eros, per partorire una nuova vita, una nuova speranza, una nuova consapevolezza.

Tra voyeurismo e asessualità coniugale, si delinea una storia rovente, umida, torbida come i monsoni che non lasciano scampo. La pioggia fuori è il presagio delle lacrime e degli umori che vengono dal corpo, che sono costretti e poi rompono gli argini.
Da questo libro è stato tratto anche il film omonimo, nel 2002, con la regia dello stesso autore, che si riserva i panni di Iguchi: osannato dalla critica, diventa un cult inquietante e perverso che non ha vie di mezzo.

Tsukamoto Shin'ya in una scena del film.

Eros e morte, eros e vita. Elementi apparentemente antitetici si reclamano e si uniscono in un amplesso difficilmente scindibile.
Un'opera raffinata, che racchiude una sofisticazione maledetta che non lascia indifferenti.
A me è piaciuto affacciarmi in questi abissi, da lettrice a voyeur, di un dramma che non ha fine.

«Rinko non  mi appartiene più. Nessun essere umano può rivendicare la proprietà di un suo simile. Il vincolo del matrimonio mi aveva illuso di avere il diritto di gestire mia moglie a mio piacimento, oggi però quell'illusione è svanita. Rinko non è di nessuno. È solo di se stessa.»


[libro omaggio della casa editrice]

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