Recensione: Chi dà luce rischia il buio di Giulia Ciarapica


«La luce ce la dovevamo inventare, la rincorrevamo finché il cielo lo permetteva, ma non ci siamo mai lamentati, e sapete perché? Perché eravamo abituati al buio. L'abbiamo respirato.»

Di cosa è fatta, la vita? Di molteplici vittorie infilate una dietro l'altra, all'infinito? O di sconfitte amare e brucianti, distruttive? Oppure, se si è fortunati, è la somma delle due cose, una condizione di equilibrata oscillazione tra la gloria e la vergogna?
È l'equilibrio tra la luce e il buio.

Dopo "Una volta è abbastanza", torna Giulia Ciarapica per portarci di nuovo a Casette d'Ete con l'atteso seguito "Chi dà luce rischia il buio" [Rizzoli].

Il romanzo si apre nel 1965, ritroviamo Casette d'Ete in fermento eppure mai troppo diversa da sé stessa.
Valentino Verdini con la sua Valens cavalca un'ondata positiva di successi: le sue scarpe sono belle, le più belle di tutte, i modelli precorrono i tempi e i materiali parlano di un benessere che vuole ostentare, dopo la miseria della guerra. Accanto a lui Giuliana, indurita dal lavoro e dal continuo ingoiare l'umiliazione dei tradimenti di Valentino: lavora in fabbrica, inquadra le operaie e poi torna a casa e cerca di fare la madre come può, come sa, con un'ostinata cecità di fronte alle profonde diversità dei tre figli.
Annetta non deve niente a nessuno: la Mondial è diventata un'azienda che guarda alla moda con la sicurezza di chi ha i mezzi per dire la sua e non ha vergogna di mostrarsi per quello che è, per come vuole che gli altri la vedano. Indossa gioielli e pellicce, fuma e si prende tutti gli uomini che vuole, sapendo con certezza che ci sarà sempre qualcosa che non potrà avere.
Poi ci sono Bianca Maria, la figlia maggiore di Valentino e Giuliana, svogliata, egoista, determinata a perseguire solo il suo interesse, e Gianna, la seconda, bella, intelligente, silenziosa, col profilo tagliente che guarda a terra come se dovesse sempre sopportare un dolore troppo grande per la sua giovane vita.
Tutt'attorno l'amore, l'odio, l'invidia, i soldi, la società che cambia ma, in fondo, resta sempre la stessa.

«Riparare famiglie è come riparare scarpe: l'occhio che le osserva riconoscerà sempre ciò che al primo colpo non è venuto bene. Lo cercherà fra mille altre famiglie, fra milioni di altre scarpe, e lo troverà ogni volta.»

La famiglia è il perno centrale attorno a cui ruota tutto il romanzo, e lo sguardo dell'autrice la osserva da tutte le angolazioni possibili.
Valentino e Giuliana hanno una famiglia con dei valori antichi ma che si allunga, come è giusto che sia, nel futuro: il modo di vestirsi delle figlie, l'importanza attribuita alla scuola, lo spazio per la lettura, il desiderio di fuggire dal paese natio, ogni novità viene affrontata e discussa e i diversi punti di vista rivelano posizioni spesso inconciliabili.
La coppia, in questa famiglia, è forse la parte più martoriata: i tradimenti di Valentino sono una costante che, nelle sue intenzioni, non mira la stabilità della famiglia, ma che di fatto diventano la ferita più grande che, pur amandoli, può infliggere a sua moglie e ai suoi figli. Allo stesso tempo, il silenzio di Giuliana racconta ai figli - alle figlie, soprattutto - una storia differente di umiliazione e rabbia.

Annetta, da sola, è il simbolo di una famiglia che può essere, anche solo in potenza, senza mai divenire di fatto reale: la donna sfrontata e l'imprenditrice coraggiosa è al fianco della sorella e del cognato, accanto delle nipoti e si permette di abbandonarsi alla libertà di amarli esattamente per come sono, li coccola, dà loro consigli, li capisce anche senza che parlino. Annetta è famiglia anche solo con la sua presenza.

A ben guardare, in ogni angolo di Casette d'Ete c'è una famiglia, sulla famiglia si fondano le aziende, contro le famiglie si infrangono i sogni.
Casette d'Ete è famiglia in sé, lei, cittadina apparentemente dormiente eppure spietata, un nucleo a cui i componenti si uniformano, gioco forza, o periscono, in alcuni casi.

«Rischiare vuol dire morire, ma morire senza aver rischiato significa non aver vissuto.»

È un vero piacere ritrovare i personaggi del precedente romanzo, stavolta con la consapevolezza di trovarsi di fronte a figure con una profondità impressionante.
Giulia Ciarapica è brava nel descrivere ogni movimento, le peculiarità, i tic, i gesti casuali, in modo da dipingere davanti ai nostri occhi dei ritratti di persone che non ci sorprenderebbe di riconoscere per strada.
Senza la bidimensionalità della carta, Giuliana e Valentino, Annetta, Rita, Bianca Maria e Gianna, Toni, don Raffaele sono credibili come esseri viventi, non più aderenti alla finzione narrativa.
Non mi ha sorpreso, alla fine, sapere che alcuni di loro sono esistiti esattamente come Giulia li ha descritti e, anche se gli altri sono stati modificati per esigenze della trama, per me sono e resteranno realmente così.

"Chi dà luce rischia il buio" chiude diversi cerchi, senza mettere fine ad alcune storie che, anche per questo, escono dalle pagine e continuano a vivere fuori.

Io, almeno, me li immagino così, che quei personaggi, quando la scrittura si è fermata, chiusa l'ultima pagina, abbiano continuato le loro vite come tutti noi.
La nostalgia che, credo, proverò per loro viene addolcita dalla consapevolezza che, da quest'altra parte della copertina, chissà un giorno, ci sarà una Gianna o una Annetta con cui potrò incrociare lo sguardo.
L'immortalità è il valore di una grande storia, e questa lo è.

«È un paese di fantasmi, questo, che trattiene le storie di tutti e non restituisce niente. Forse i morti raggiungono per numero i vivi, ma sono sempre i vivi a richiamare i morti senza che se ne rendano conto.»

[libro omaggio della casa editrice]

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