Recensione: Il pastore d'Islanda di Gunnar Gunnarson


«In questo suo pellegrinaggio d'Avvento Benedikt era sempre solo. Davvero solo? Meglio dire senza compagnia umana. Perché era ogni volta scortato dal suo cane e spesso anche dal suo montone guida.
La liturgia di Benedikt per la prima domenica d'Avvento era quel viaggio a piedi tra le fattorie fino alla brughiera.»

Il bianco fin dove l'occhio riesce a guardare, il freddo che diventa un muro invalicabile, la speranza come scudo contro il vento, per andare avanti un passo dopo l'altro.
"Il pastore d'Islanda" di Gunnar Gunnarson [Iperborea] è un classico che diffonde magia durante la lettura ma il suo incantesimo persiste anche dopo.

La storia possiede la semplicità dell'epica: un uomo si mette in viaggio ogni anno la prima domenica d'Avvento per gli altipiani desertici, insieme a un cane e a un montone, alla ricerca delle pecore che sono andate perse prima che le greggi venissero messe a riparo. Durante il viaggio viene colto dal maltempo e, dopo diverse disavventure, riesce a tonare a casa sano e salvo e con una diversa consapevolezza di sé.

Nella semplicità di quesa storia, lineare, pulita, c'è una profondità che passa attraverso il ghiaccio e la solitudine, col vento sferzante che spazza via le vecchie convinzioni per fare spazio a nuove luminose consapevolezze e speranze.

«L'Avvento! Sì... Benedikt pronunciò con cautela quella parola grande, mite, così esotica e al tempo stesso familiare. Forse, per Benedikt, la più familiare di tutte.»

Quando Benedikt arriva alla prima fattoria, percepiamo il rispetto con cui gli altri lo guardano e lo accolgono: nessuno si avventurerebbe in quel deserto di neve e ghiaccio e lui che lo fa da ventisette anni, esattamente da metà della sua vita, è visto come un essere mitologico, quasi un sacro profeta che possiede il favore della Natura, che si lascia attraversare senza ferirlo.

Benedikt è un uomo taciturno, osservatore, attento tanto agli elementi della natura che agli uomini che lo avvicinano. Il suo cuore è generoso, le cose materiali gli interessano poco, condivide senza calcolo e senza pregiudizi anche con chi vuole approfittarne, sicuro che si riceva di più a donare incondizionatamente.

«Negli anni quella parola era arrivata aa racchiudere tutta la sua vita. Perché cos'era la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall'attesa, dalla speranza, dalla preparazione?»

"Il pastore d'Islanda" è il vero canto di Natale per gli islandesi e non è difficile immaginarne il motivo.
Pubblicato nel 1936 in tedesco, l'anno dopo in danese e solo nel 1939 in islandese, per prendere poi il volo ed essere tradotto e stampato in gran parte delle lingue conosciute.
Si dice che abbia anche ispirato "Il vecchio e il mare" di Hemingway ed è credibile come ipotesi perché Gunnarson è un autore considerato un classico della letteratura islandese e molto ammirato dai suoi contemporanei (è stato nominato diverse volte per il Premio Nobel).

Ho camminato anche io con Benedikt nella tempesta - le descrizioni climatiche di Gunnar Gunnarson sono molto vivide -, ho provato sollievo quando il calore del fuoco mi ha raggiunta, ho desiderato intravedere una luce in lontananza che mi indicasse la via e la speranza.

Rimandavo questa lettura da qualche anno, poi, una volta iniziata, non sono stata più in grado di tornare indietro, di lasciare il pastore con il montone e il cane a vagare da soli nel gelo.
Ero con loro e con loro ho attraversato il periodo dell'Avvento.

Il potere di un grande libro non ha tempo e persiste nel tempo.
Da quest'anno sarà un appuntamento per ritrovare non solo Benedikt e il suo gruppo, ma tutta la magia dell'attesa della salvezza.


«C'erano stati giorni e notti in cui sognava e nutriva speranze di felicità e di una vita tranquilla. Ora non più, ed è meglio così.»

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