Recensione: Uvaspina di Monica Acito


«Lui l'ammore non se lo meritava, l'ammore era solo degli altri, di quelli che andavano a mangiare insieme a via Caracciolo e poi si abbracciavano sul lungomare con una cattiveria immane perché la felicità vista da fuori è crudele, ti colpisce come un manrovescio, uno schiaffo egoista che ti dice soltanto. "Tu no."»

Se mai aveste bisogno di un libro che prima vi accarezza e poi vi prende a mazzate, tenete in cima alla lista "Uvaspina" di Monica Acito (Bompiani) e poi mi ringrazierete (o mi bestemmierete).

Il titolo è il nome con cui tutti, da quando è nato, chiamano Carmine Riccio a causa di una voglia bianca sotto l'occhio della grandezza di un acino di uva spina. Uvaspina è il figlio del notaio di Chiaia (e presidente del Circolo Nautico di Posillipo) Pasquale Riccio e di Graziella la Spaiata, nota chiagnazzara di Forcella, una donna che ha fatto del piangere (a pagamento) ai funerali altrui un'arte quasi teatrale. I due si sono conosciuti al funerale del padre di Pasquale e subito dopo si stavano arravogliando nella macchina, spinti da un desiderio animale. Inutile dire che la famiglia Riccio non approvava il matrimonio, ma tant'è, nessuno era stato capace di togliere dalla testa di Pasquale quella femmina focosa.

Dalla loro unione è nato Uvaspina e, dopo un anno e mezzo, Minuccia. I due fratelli sembrano molto uniti, dall'esterno si direbbe quasi che sono gemelli, ma poi a una seconda occhiata tutti dicono sempre che Uvaspina ha l'eleganza dei Riccio mentre la femminuccia è meno delicata, diciamo così, "tiene la panzella".
Le occhiate degli altri, i piccoli gesti, tutto influisce nel seminare e far germogliare in Minuccia un odio atavico nei confronti del fratello, una specie di lucida follia che prima glielo fa abbracciare e poi cercare di strozzarlo, con la fune dello strummolo che gira gira sulla sua punta di ferro e lascia una scia di cicatrici. Minuccia è lo strummolo, la trottola che all'improvviso le gira dentro e travolge e distrugge tutto quello che le capita a tiro.

Una presentazione ufficiale è d'obbligo perché questa storia è fatta di identificazioni, a prima vista o a primo odore, è fatta di panni che si vestono, come a teatro, e che, fin dalla prima apparizione, fanno riconoscere il personaggio, e da quel personaggio nessuno potrà mai sfuggire.

«Uvaspina guardò la coperta del cielo, le costellazioni, le stelle fisse e fredde, e in quei reticoli geometrici di astri vide prima la forma di un poligono spigoloso, poi di un cane con un orecchio e infine un frutto che ormai aveva perso la buccia e non sapeva trovare pace. Quella buccia non gliel'avrebbe potuta restituire nemmeno un vestito fatto tutto di stelle, perché dentro c'era soltanto frutta ammaccata, semini, una polpa così spremuta da aver perduto la sua forma.»

Spremuto dalla sorella strummolo; spremuto dalla madre, da sempre più dedita al fumare vicino alla finestra e a morire e risorgere il mercoledì sera - a seconda delle uscite del marito - che a coccolare il figlio; spremuto dall'indifferenza del padre; spremuto dagli sfottò dei compagni di classe; spremuto dalla sua stessa solitudine, Uvaspina è un'anima delicata e, allo stesso tempo, coriacea, ben ferma nella consapevolezza di essere destinata alla tristezza e al disamore.

Del resto, tutti i rapporti di casa Riccio sono stretti nel disamore: il matrimonio tra la Spaiata e Pasquale, la fratellanza tra Uvaspina e Minuccia, la diffidenza tra Minuccia e tutto il resto del mondo.
Così, quando Uvaspina viene salvato ai piedi di Palazzo Donn'Anna mentre rischia di affogare, gli occhi di due colori di Antonio lo confondono, ma quello che fa vacillare il suo mondo è la gentilezza che quello sconosciuto ha nei suoi confronti. Quando mai qualcuno lo ha guardato senza pensare o sussurrare "femminiello", quando mai qualcuno gli si è avvicinato non per dargli mazzate ma per rimetterlo alla vita? 

«Uvaspina accettava di essere un frutto, un frutto buono non soltanto per essere strizzato, non soltanto a curare i dolori dell'altra gente. Finalmente Antonio aveva trovato il modo di tirargli fuori un balsamo nuovo, che gli ridava una scorza diversa e gli disegnava una pelle vera.»

Antonio ha dentro un universo ricco di sogni e storie e un'ambizione talmente grande che tenterà di risollevarlo dalla gioventù di povertà e dolore, ben nascosti dietro al brillio intelligente degli occhi.
Uvaspina per Antonio è il suo criaturiello, un bambino delicato che lui avvia alle scaramucce dell'amore.
Tra i due c'è un sentimento grande, immenso, ma non capace di superare i loro stessi pregiudizi, i dettami ipocriti della società, il desiderio di essere qualcuno di diverso dal sé che si sente nel petto.
Su tutto, tra tutti, il mare. Acqua salata che va e viene, dalla spiaggia, dagli occhi, in un'eterna risacca in cui risuonano i colpi di Antonio nel corpo di Uvaspina, in cui si rispecchiano le domande insistenti del giovane per aver un finale alla loro storia, un finale qualsiasi, benché sappia che non potrà mai essere lieto.

Ho letto "Uvaspina" due volte, la prima perché la trama mi aveva colpito e la seconda volta perché, dopo giorni, mi sentivo ancora un veleno che mi scorreva sotto pelle. Perché altro non può essere se non un veleno quello che fa perdere il senso del tempo - l'ambientazione temporale potrebbe essere negli anni '80, così come nei primi 2000, oppure anche ieri -, che non ti fa capire come si possa perdere l'amore assoluto di una mamma per i figli, che non ti fa spiegare perché un essere umano viva solo per sfogare una cattiveria sorda e distruttiva tutt'attorno, che ti fa credere anche alle più antiche maledizioni.
Una scrittura che, pagina dopo pagina, diventa come i lapilli del Vesuvio, materica, che ti sporca le mani, che ti resta attaccata sulla lingua mentre leggi.
Monica Acito è stata capace di rendere opachi, sotto una patina di malessere, anche il blu del mare di Posillipo, il cielo splendente di Napoli, i dolci più golosi. Un malessere che vuole menare mazzate, mordere, lasciare segni sul corpo e che ti fa bruciare tutto. Oppure ti fa rileggere per la terza volta - come se fosse la prima - questo libro e poi consigliarlo.
Perché anche voi dovete sapere che esiste una storia così.

«Napoli, ai loro piedi, brillava con una forza livida, e loro erano due formiche che si contorcevano 'ncopp a 'na muntagna e che potevano essere calpestato col tacchetto di una scarpa. Intanto la notte si faceva sempre più fresca ma loro, sulla terra, non la sentivano più.»


[libro omaggio della casa editrice]

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