Le storie che leggiamo spesso contengono messaggi che, prima che ci raggiungano, devono fare giri immensi.
Quando mi sono imbattuta in "Estranei" di Yamada Taichi [Nord], in occasione dell'uscita dell'omonimo film, mi è sembrato da subito che ci fosse qualcosa di più di quello che l'autore si premurava di dire fin dalle prime pagine.
«Che cosa mi era preso, mi domandai, per lasciare che questo estraneo appena incontrato mi portasse a casa sua?»
Harada Hideo ha 47 anni, è divorziato da poco, lavora come autore di serie televisive e vive in quello che prima era il suo studio. La sua casa è rimasta, infatti, alla moglie e al figlio Shigeki - che frequenta il secondo anno di università e che lui vede pochissimo - e, visti i pochi fondi, si è trasferito nel palazzo occupato quasi interamente da uffici, e che quindi di sera è completamente vuoto. O meglio, così crede Hideo, fin quando, in una serata particolarmente calda e lenta, sente bussare alla sua porta. È una donna, Kei, che si presenta come una vicina di un altro piano che, rientrando e vedendo la sua finestra accesa, ha pensato di andare a vedere se aveva voglia di bere qualcosa insieme. Preso alla sprovvista e infastidito in quella che credeva essere una perfetta solitudine, Hideo rifiuta, anche un po' bruscamente, e richiude la porta.
Il giorno del suo compleanno, profondamente turbato dal silenzio e dalla solitudine che lo circondano, Hideo pensa di andare a passeggiare e, strada facendo, si imbatte in un teatro aperto in cui si sta esibendo un comico, entra e tra il pubblico viene colpito dal riconoscere un uomo che è identico al padre.
«La risposta era semplice, naturalmente: somigliava in maniera straordinaria a mio padre. Tale somiglianza aveva annullato la mia consueta cautela, rendendomi incapace di opporre resistenza.»
Hideo è talmente impressionato che per un attimo dimentica che i suoi genitori sono morti in un incidente quando lui aveva 12 anni, così quando l'uomo lo invita ad andare a casa con lui, nel quartiere dove abitavano insieme, ad Asakusa, lo segue di buon grado. Arrivati in un appartamento piuttosto modesto, Hideo resta senza parole quando la donna che apre loro la porta è il ritratto di sua madre, giovane, sorridente, piena di ironia come quando lui era un ragazzino e i suoi genitori erano vivi, innamorati e intenti a sbarcare il lunario.
Interno, sera. Tre persone quasi coetanee che bevono e ridono, si raccontano qualcosa delle loro giornate, hanno familiarità.
Yamada Taichi ci presenta un'istantanea che sa di normalità, ma a causa di alcuni dettagli che ci saltano all'occhio, non riusciamo a rilassarci. Non ci fidiamo. Cosa sta succedendo in quella stanza? Cosa sta per succedere?
«Desideravo tornare a un ruolo passivo, alla gioia spensierata di fare semplicemente quello che dicevano mia madre e mio padre.»
Pubblicato per la prima volta nel 1987, "Estranei" ha vinto il Premio Yamamoto Shūgorō ed è stato trasposto cinematograficamente due volte, una proprio l'anno scorso con Andrew Scott e Paul Mescal.
Fin dalle prime pagine, sentiamo la voce di Hideo, annoiata e senza prospettive, che si insinua nel lettore con una descrizione cupa e asfissiante: abbiamo davanti un uomo sconfitto dalla vita, che lo ha privato di tutti gli affetti, senza progetti per il futuro, abbandonato dalle forze vitali che lo assistevano nel processo creativo che era alla base del suo lavoro.
Quando incontra di nuovo i suoi genitori, sente dentro di sé qualcosa che si scioglie, una fune che si allenta e lo lascia improvvisamente respirare. Hideo non riesce più a farne a meno: appena può, scappa ad Asakusa e passa del tempo con loro. Eppure, tutti dicono che appare smunto, malato. Soprattutto Kei che, dopo quel primo rifiuto, ci ha riprovato ottenendo da Hideo non solo un invito a bere qualcosa, ma ha condiviso con lui anche diversi momenti di piacere.
Yamada inquadra dei dettagli, lo fa per noi - per suggerirci la verità o per ingannarci -, e poi ci fa guardare altro: siamo con Hideo e con i genitori, ma qualcosa ci sfugge, non riusciamo a mettere a fuoco certi sguardi che pure sappiamo che i tre si stanno scambiando. Lo sappiamo o lo stiamo immaginando?
È in quella suggestione che si dispiega la maestria di Yamada, nel farci immaginare l'orrore, nel renderci consapevoli che di reale non ci sia niente, eppure abbiamo paura.
In più di un passaggio, mentre l'autore sottolinea un'espressione, un sorriso obliquo o un movimento, mi è venuta la pelle d'oca.
«Non ho idea di cosa mi sia preso, ma stasera mentre me ne stavo sola nella mia casa vuota, di colpo non sono più riuscita a sopportare la solitudine; così, non so quante volte ho cambiato idea, ma alla fine ho deciso di venire. Cioè, ci pensi. In piena notte, in tutto l'edificio siamo soltanto uno o due. Fa paura. Io sto al terzo piano. Può venire lei da me, se preferisce.»
In "Estranei" i fantasmi moderni incontrano quelli dei riti tradizionali, si sovrappongono, confondono le carte in tavola, si contendono la carne di un uomo che ha per unico difetto una vorace e spietata solitudine.
Arrivati all'ultima pagina, nessuno sarà più lo stesso, soprattutto il lettore.
Lungi dall'offrirci un facile happy ending, Yamada si diverte a lasciarci una quieta, ma non per questo meno amara, malinconia che pure ci fa sospirare (di sollievo, forse?).
«A che cosa si riduceva, comunque, questa mia vita? Dedicarmi a occupazioni casuali che si presentavano una dietro l'altra, godere dei momenti di emozione che ogni piccolo sommovimento recava prima di scomparire in lontananza, senza però conservarne alcuna durevole riserva di saggezza.»
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