«Lei sta mandando giù un cocktail dopo l'altro come se dovesse dimostrare a tutti i costi che si sta divertendo, mentre io bevo per soffocare la str*nza che è in me e che la vorrebbe m*rta.»
Era un anno, più o meno, che vedevo in giro sui social (nella mia bolla di editoria in lingua inglese) questa copertina dove il giallo si estende a tutto spiano, senza ombre, interrotto solo da due occhi dal taglio obliquo. "Yellowface" dice il titolo - e forse anche la copertina - e lo firma Rebecca F. Kuang, che finora avevo intravisto solo perché autrice di "Babel", un fantasy (?) arrivato in Italia con grande plauso.
Quando Mondadori ne ha annunciato la traduzione, ero già sicura che lo avrei letto e quando mi sono trovata davanti le prime pagine, mi sono resa conto del perché sia circolato in maniera così diffusa nella sua versione originale.
"Yellowface" mette nero su bianco, senza vergogna, i tabù che sono stati sempre sussurrati e mai pronunciati a voce alta nel mondo dell'editoria. L'invidia, i bestseller costruiti a tavolino, l'appropriazione culturale, la reputazione social degli scrittori, il pubblico che critica spesso senza leggere effettivamente il libro.
Kuang prende tutto quello che pungola lei e gli autori della sua generazione e lo sbatte in faccia al lettore.
«So che non ci crederete, ma non c'è mai stato un momento in cui ho pensato "Ora lo prendo e lo trasformo in una cosa mia". Non ho escogitato a tavolino un perfido piano per trarre profitto dal lavoro della mia amica defunta.»
Athena Liu è una giovane scrittrice sinoamericana che ha tutti i requisiti per maneggiare agevolmente il successo che le è piovuto addosso fin dalla pubblicazione del suo primo libro: è bella, "vagamente queer", controllata nelle sue uscite pubbliche e simpatica nelle sue espressioni private sui suoi profili social da settantamila follower. Incarna il modello della scrittrice impegnata, che tutti vogliono conoscere e leggere, il cui libro è talmente cool da essere un oggetto di culto.
Fin qui tutto bene, se non fosse che Athena muore, accidentalmente, banalmente se vogliamo, e l'unica che è nei paraggi è una sua amica, forse più una conoscente, June "Juniper" Hayward, che non sa davvero come possa essere accaduto che quella donna, che l'ha pungolata con i suoi irraggiungibili successi fin dall'università, all'improvviso non ci sia più.
«Ora, invece, capisco che gli sforzi di un autore non c'entrano nulla con il successo di un libro. I bestseller vengono scelti e basta. Non importa quello che fai. Devi solo goderti i vantaggi annessi.»
Forse sotto choc, June gira per casa di Athena e nel suo studio trova il manoscritto finito e mai inviato al suo agente di un'opera monumentale intitolata "The Last Front" sui 140mila operai cinesi arruolati dall'esercito britannico e mandati a morire al fronte durante la Prima Guerra Mondiale. Athena delinea un'epopea che, June ne è sicura, catturerà l'attenzione del pubblico e della critica, e naturalmente le case editrici si accapiglieranno per aggiudicarselo. Pensare questo e prendere il manoscritto, è un tutt'uno.
Quello che succede dopo è un susseguirsi di imbarazzanti previsioni azzeccate: June vende per uno spropositato anticipo il manoscritto, ci lavora giusto un minimo e, quando arriva in libreria, i social esplodono.
Cosa va storto, allora?
Va storto che, mentre si addentra nel successo editoriale immeritato, June si gioca la sua anima, pezzo dopo pezzo, fino a cadere in un baratro di inaudita violenza. Indietro non si torna, perché farebbe crollare il castello di sabbia che June ha eretto come sua nuova dimora.
Rebecca F. Kuang gira e rigira il coltello nelle piaghe della sua protagonista per stendere al sole i panni ancora sporchi di un mondo, quello editoriale americano, dove tutto conta per uscire e, allo stesso tempo, per ricadere nel fango: June rispolvera un secondo nome - Song, omettendo il cognome - dal vago aroma asiatico; evita di raccontare le sue origini - americanissime; si nasconde dietro capricci da prima donna quando qualcuno insiste nel conoscere la nascita di un tale ambiziosissimo progetto; si erge sul trono del presunto potere economico nel sentirsi desiderata commercialmente da tutte le parti.
Nel vortice di notifiche, follower, recensioni e stelline d'apprezzamento, Juniper Song diventa il fantasma di se stessa e non sorprende, a un certo punto, la svolta di brividi horror in cui la storia viene avvolta suo malgrado. Eppure, in un mondo dove contano i commenti e i numeri sui social, potrebbe essere tutto possibile, anche una minacciosa presenza ultraterrena
"Yellowface" segna una tacca nella narrazione letteraria della nostra generazione perché ammette sentimenti finora inammissibili e lo fa a viso aperto, pure se non è un viso culturalmente accettabile e ipocritamente giustificabile.
La satira disvela l'ipocrisia e quello che vediamo è crudelmente piacevole.
«Mi manca quello che era la scrittura prima di conoscere Athena Liu.»
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